il mio concetto registico

Luci, convivenza e spazi scenici

Ogni mia regia nasce come un sistema di convivenze. Convivenze tra linguaggi, tra tecnologie, tra corpi e architetture, tra luce e suono, tra ciò che si mostra e ciò che resta in ombra. Convivenze anche tra livelli: di spazio, di senso, di altezza.

Realizzo spesso regie site-specific, in spazi spesso non teatrali, dove la scena si costruisce con il luogo e non dentro di esso. Ogni ambiente diventa parte narrativa, non solo contenitore. L’uso di praticabili, piani inclinati, passerelle, finestre, velatini, e altri dispositivi scenici genera una stratificazione verticale e profonda dello spazio, che invita lo spettatore a scegliere cosa vedere, da dove guardare, quanto avvicinarsi o distanziarsi.

La luce è al contempo diegetica ed evocativa: concreta, viva, poetica. È oggetto e soggetto della scena. Neon, cavi, lampadine, piccoli riflettori e ombre mobili partecipano all’azione drammaturgica. Alcune tecnologie sono retro, analogiche, volutamente imperfette. Altre sono digitali, sincrone, sintetiche. La loro convivenza non è un effetto: è un linguaggio.

Il ritmo è per me una struttura invisibile ma percepibile, che guida lo sguardo e l’ascolto. È fatto di pieni e vuoti, di cambi di intensità, di pause e rilanci.

Cerco momenti di straniamento, piccole rotture poetiche che rivelano l’artificio, che non lo nascondono. Il teatro, per me, è anche un esercizio di consapevolezza: ci ricorda che siamo insieme, in uno spazio, a condividere un tempo sospeso.

Chi guarda non è mai passivo: è chiamato a scegliere. Ogni regia lascia spazi di libertà percettiva. Lo sguardo non è obbligato, è invitato.
Il teatro che cerco è relazione aperta, molteplicità vissuta, possibilità plurale.

Ogni regia è un atto politico, poetico e relazionale. Un modo di abitare lo spazio con lo sguardo di chi racconta, ma anche di chi ascolta.